Agosto 1950, rifugiata sudcoreana in fuga da Pohang |
A me la guerra fa sempre effetto. Mi turba sebbene non l’abbia mai vissuta né sfiorata. Perché la guerra è - oltre che orrore e sofferenza - stravolgimento di ogni certezza, abitudine, legame. Tutto diventa forse.
Di tutte le immagini che ho sfogliato, ho scelto quella che più di ogni altra mi evoca la guerra. Quella che della guerra mi dà la sensazione più satura. Non è l’immagine di un fucile, di un ferito, di un filo spinato, ma l’immagine di una donna. Giovane. Una donna qualsiasi, una popolana. Una donna per tutte le donne.
Le donne nella guerra apparentemente sono l’estraneo in un mondo di forza mascolina e violenza. Sono l’altrove.
Invece per me sono il centro ferito del mondo in guerra. La guerra si consuma attorno, anormale, foriera di lutti. Attorno alla vita indifesa di una mamma, una moglie.
Madri che perdono figli, compagne che soffrono la separazione dai propri uomini, che subiscono gli oltraggi dei vincitori, che consolano soldati e tamponano ferite. Ma anche la vita che continua, magari sola, nelle retrovie o a migliaia di chilometri di distanza, nell’attesa del ritorno, nella solitudine, nell’abbraccio protettivo e consolante per i bambini senza padri per un mese, un anno o sempre.
E speranza anche, amore, rigenerazione, futuro. Vita insomma.
Marinetti disse che “la guerra sta all'uomo come la maternità alle donne”, ma se le donne si occupassero di politica la mediazione vincerebbe sul remoto bisogno dell’uomo di risolvere la contesa con la morte.
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